Il beta-cariofillene è un terpene presente negli oli essenziali di varie piante, al momento il pepe nero (Piper Nigrum) rappresenta la principale fonte di estrazione di questa molecola, ma è presente in buone quantità anche nel luppolo, nel rosmarino e nella cannabis. Come la maggior parte terpeni contribuisce all’aroma e al sapore di ogni specie vegetale ma, ha anche la particolarità di legarsi ai recettori del nostro sistema endocannabinoide alla pari dei fitocannabinoidi della cannabis.
A differenza del THC (tetraidrocannabinolo), il beta-cariofillene attiva esclusivamente i recettori CB2 e non presenta affinità per i CB1, escludendo la possibilità di indurre effetti psicoattivi. L’attivazione selettiva dei recettori CB2, fa sì che questa molecola possa essere utilizzata in medicina, in particolare nel trattamento del dolore. Negli ultimi anni grazie ai vari studi che sostengono questa tesi, non è raro trovare il beta-cariofillene all’interno di integratori alimentari naturali.
Molto di ciò che sappiamo non deriva da studi sul principio attivo puro, ma sulla molecola all’interno di un fitocomplesso, l’insieme dei componenti chimici di una pianta. Alcuni scienziati hanno studiato l’effetto antinfiammatorio del beta-carioffillene, questo infatti è grado di inibire l’espressione di citochine pro-infiammatorie, molecole che contribuiscono a mantenere l’infiammazione, come il TNF-α, IL-1β, e IL-6 all’interno dell’olio essenziale coreano di Artemisia Fukudo, di cui uno dei componenti principali è proprio il cariofillene.
Ulteriori ricerche hanno dimostrato che aiuta a migliorare la guarigione delle ferite nei topi. Nello studio pubblicato su Plos One, scrivono chiaramente che: “Le ferite cutanee di topi trattati con beta-cariofillene hanno migliorato la riepitelizzazione. Il tessuto trattato ha mostrato un aumento della proliferazione cellulare e le cellule trattate con beta-cariofillene ha mostrato una maggiore migrazione cellulare, suggerendo che la maggiore riepitelizzazione è dovuta alla proliferazione cellulare e la migrazione cellulare”.
Articolo originale su BeLeaf Magazine