Il 30 marzo 1961 gli Stati che si riunirono a New York per la firma della Convenzione Unica sugli stupefacenti si diedero un obiettivo: eliminare le produzioni illegali di oppio entro 15 anni da quando il documento fosse stato reso esecutivo (quindi entro il 1979) e quelle di cannabis e coca entro 25 (1989).
Nel 1998, 37 anni e altre 2 convenzioni dopo (1971 e 1988), i governi mondiali si riunirono questa volta in occasione della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulle droghe voluta dall’allora Zar antidroga Pino Arlacchi. Ne uscì la dichiarazione di New York, in cui l’ONU rilanciò promettendo un mondo senza droghe entro 10 anni.
Inutile dire che nel 2009, questa volta a Vienna, il segmento ad alto livello della Commission on Narcotics Drugs ha dovuto prendere atto che gli obiettivi non erano stati minimamente centrati, dandosi ulteriori 10 anni di tempo per raggiungerli.
Nel 2019, altro giro, stessa storia. I governi stessi hanno ammesso che “sia la gamma che i mercati della droga si stanno espandendo e diversificando; l’abuso, la coltivazione illecita, la produzione e la fabbricazione di stupefacenti e sostanze psicotrope, nonché il traffico illecito di tali sostanze e di precursori hanno raggiunto livelli record, la domanda illecita e la diversione di precursori chimici sono in aumento. Si osserva ovunque un aumento dei legami tra traffico di droga, corruzione e altre forme di criminalità organizzata, compresa la tratta di persone, il traffico di armi da fuoco, la criminalità informatica e il riciclaggio di denaro e, in alcuni casi, il terrorismo, compreso il riciclaggio di denaro in connessione con il finanziamento del terrorismo”.
Non servirebbero quindi grandi analisi per capire che la War on Drugs è stata un fallimento totale. Ma se ritorniamo anche solo al 1998, l’anno della dichiarazione sul “mondo senza droghe”, il disastro della war on drugs è acclarato dai numeri. Dieci anni dopo, nel 2008, nonostante politiche pesantemente repressive sia dal lato produzione che consumo, le persone che utilizzavano oppiacei erano aumentate del 34,5%, quelle che usavano cocaina del 27% e quelle utilizzatrici di cannabis dell’8,5%. Vent’anni dopo, nel 2018, il World Drug Report dell’UNODC attesta l’esistenza di 269 milioni di consumatori di sostanze nel mondo. Un aumento del 54% rispetto al 1998: le persone che usano sostanze sono dunque aumentate a velocità esattamente doppia rispetto all’aumento della popolazione mondiale (+27%) nonostante tutte le azioni e le politiche messe in campo a livello globale e locale. Tra il 2009 e il 2018 la produzione di oppio e coca è aumentata rispettivamente del 125% e del 30%, mentre nessun segno di riduzione si è avuto per la cannabis. Un quarto delle entrate complessive della criminalità organizzata proviene dal narcotraffico. Nel 2018 il fatturato del mercato globale della droga viene stimato tra i 426 e i 652 miliardi di dollari. Ben oltre la metà dei profitti vengono riciclati, e di questi meno dell’1% viene sequestrato.
Ma c’è altro, oltre all’assoluta inefficacia della war on drugs, anche solo a scalfire mercato delle sostanze illegali. 60 anni di politiche proibizioniste hanno provocato più danni di quelli provocati dalle sostanze stesse, sia in termini sanitari che sociali, ambientali ed economici. Come ci hanno aiutato a scoprire le analisi della società civile[1], che sinora– in assenza di un qualsiasi interesse a farlo dei governi – hanno svolto solitarie un ruolo di ricerca e valutazione delle politiche basato sulle evidenze.
La criminalizzazione e lo stigma sono ancora oggi fra i principali ostacoli all’accesso ai servizi di riduzione del danno e di cura. Così la prevalenza di HIV fra le persone che si iniettano droghe è rimasta costante all’11,8%, quella di epatite C al 51,9% e di tubercolosi all’8%.
Le morti per overdose hanno avuto un’impennata negli ultimi anni, con il tragico contributo della crisi degli oppioidi in Nord America, che solo negli ultimi 3 anni ha fatto 210.000 vittime negli USA. Tra il 2009 e il 2017, oltre 800 nuove sostanze psicoattive (NPS) hanno fatto capolino nel mercato globale della droga. Vietata la sostanza naturale il mercato sforna sempre nuove sostanze di sintesi che simulano gli stessi effetti, ma spesso con rischi e danni molto peggiori. Una volta scoperta una NPS e vietata, una nuova viene immessa nelle piazze di spaccio. Il cane proibizionista che si morde la coda e nel frattempo mette a repentaglio le vite di milioni di persone.
Le convenzioni non sono nemmeno riuscite a garantire l’accesso alle sostanze per usi medici. Conosciamo la grave situazione italiana della cannabis terapeutica ma – guardano un poco più in là del nostro naso – la situazione è tragica: mentre il 75% della popolazione globale non ha accesso ai farmaci essenziali, il 92% della morfina viene consumata dal 17% della popolazione mondiale.
Non c’è solo la salute, la war on drugs mina i diritti umani nella loro accezione più larga. Tra il 2009 e il 2018 almeno 3.940 persone sono state giustiziate per reati legati alle droghe: 33 stati mantengono tuttora la pena di morte per droga. È recente e drammatica l’escalation delle politiche punitive nel sud e nel sud-est asiatico, con al centro le Filippine di Rodrigo Duterte. Da giugno 2016 la guerra a chi usa sostanze del presidente filippino ha provocato oltre 27.000 esecuzioni extragiudiziali nonché l’incarcerazione di oppositori politici, come la senatrice Leyla De Lima, in prigione dal 2017. Non si può dimenticare che il 20% della popolazione mondiale detenuta è in carcere per droghe, la stragrande maggioranza per mero possesso. In Italia questo dato è quasi il doppio, 35%. C’è poi il tema della non proporzionalità delle pene, con punizioni eccessive, atti di tortura o trattamenti disumani e degradanti.
Le attuali politiche sulle droghe sono anche causa di destabilizzazione geopolitica. Se l’obbiettivo dell’ONU è promuovere la pace e la sicurezza, le politiche proibizioniste hanno avuto effetti opposti. In Messico la guerra contro i cartelli della droga ha prodotto oltre 150.000 morti e 32.000 sparizioni. La corruzione negli apparati dello stato costituisce una minaccia non solo alla sicurezza, ma anche allo sviluppo democratico: in Messico come in paesi più vicini a noi come Albania, Kossovo, Macedonia e Montenegro. Le campagne di eradicazione dell’oppio in Afghanistan e della coca in Colombia hanno avuto effetti perversi simili, senza effetti reali sulla produzione: oggi l’Afghanistan produce l’86% dell’oppio mondiale e la coltivazione di coca in Colombia è aumentata del 103% fra il 1998 e il 2018 (nonostante 17 anni di fumigazioni). In compenso nel paese asiatico queste hanno favorito l’insurrezione talebana aumentando violenza e criminalità, mentre in quello sudamericano hanno costretto decine di migliaia di persone a essere sfollate, anche per i danni all’ecosistema dovuti all’uso del glifosato. Questo processo che ha portato le popolazioni a spostarsi, insieme alle coltivazioni, ha prodotto la perdita di migliaia di ettari di foresta amazzonica ed invadendo territori indigeni e parchi nazionali. Tanto che oggi il 32% della coca colombiana è prodotta al loro interno. Questo è solo uno degli esempi di come il proibizionismo ha effetti pesanti sull’ambiente[2].
Un Epic Fail, proprio come le ONG hanno titolato l’evento on line che si è tenuto il 30 marzo scorso e che potete rivedere su Fuoriluogo[3]. Un webinar in cui si è cercato di guardare al futuro delle politiche sulle droghe insieme ad esperti ed attivisti di tutto il mondo. Un futuro che non può che guardare al passato per non compiere gli stessi errori.
Articolo originale su BeLeaf Magazine