Quando ho visto i primi 5 minuti di Trailer Park Boys mi sono detta: “Oh no, l’ennesima serie con tre maschi bianchi etero sempre strafatti, sarà una noia mortale”. Poi sullo schermo sono apparse, oltre alle tonnellate di cannabis, anche gattini, famiglie allargate e una sgangherata ma tenerissima solidarietà. Lo spettacolo si è fatto interessante.
Trailer Park Boys è una serie canadese in stile mockumentary (reperibile su Netflix) creata da Mike Clattenburg che ha da poco compiuto 20 anni, 13 stagioni, 115 episodi, e 4 film. Racconta le avventure di un gruppo di amici che vivono in un campo caravan nella periferia di un’immaginaria Nuova Scozia.
Rozzi e scurrili, eccessivi e assurdi, i personaggi di Trailer Park Boys vivono in un contesto di sottoproletariato urbano, alle prese con problemi di sopravvivenza e solidi conflitti. Ricky, Julian e Bubbles – interpretati da Robb Wells, John Paul Tremblay e Mike Smith – sono i protagonisti del campo. Vivono di espedienti, per lo più illegali. La principale fonte di reddito per Ricky sono le coltivazioni di cannabis nella roulotte tappezzata di fogli alluminio. Ma insieme a Julian si occupa anche di furti maldestri e spettacolari. Bubbles ufficialmente ripara i carrelli della spesa e si prende cura di numerosi gatti, ma finisce sempre con l’assecondare gli amici e mettersi nei guai.
Personaggi alla periferia del sistema
Attorno ai tre si sviluppa la comunità del parco. Una discreta quantità di disagio avvolge la vita di tutti i personaggi, che in un modo o nell’altro incarnano una paura sociale, una condizione definitiva. Eppure convivono, si sostengono a vicenda e sanno volersi bene. A dispetto dell’atmosfera tiepida e sonnacchiosa della sigla iniziale, ogni giornata dei TPB finisce con un disastro, così come ogni stagione finisce con Ricky e Julian in prigione per questioni legate all’erba.
Spesso per colpa di Jim Lahey, l’arcinemico guardiano del campo, ex poliziotto, alcolizzato. Bisessuale dichiarato insieme a un altro personaggio rilevante: Randy, assistente e amante di Lahey, che esibisce la nudità di una grossa pancia (per orgoglio) ed è capace di grandi slanci affettivi, ma è destinato a soccombere alla cattiveria.
Poi c’è Lucy, con cui Ricky ha una figlia e una relazione tira e molla per diverse stagioni, che sogna stabilità e eterno vigore. Barb, la padrona del campo, una donna indipendente sui 50 anni, ex compagna di Lahey. Il padre di Ricky, ludopatico con finta disabilità; l’amica di tutto il campo Sarah, i miserabili Cory e Trevor, sottomessi scagnozzi che non hanno contezza di sé. E infine Don/Donna, che si presentano come fratello e sorella ma di fatto è un personaggio con uno sdoppiamento di personalità a tratti inquietante.
Le avventure di Trailer Park Boys sono diventate anche una serie animata. Questo è il trailer
Diverse umanità si incontrano in questo parco alla periferia del capitalismo benestante. Per questi personaggi in cerca di riscatto sociale, l’estrema povertà del campo è uno scenario dove si può demolire e ricostruire tutto, basta avere qualche joint da rollare e un bicchiere di rum & cola da tenere sempre in mano. Nascono così il bar abusivo di Julian, la nursery per i gattini ideata da Bubbles, le svariate coltivazioni indoor di Ricky. La cannabis è una costante di tutta la serie. È interessante il modo in cui viene raccontata perché l’intera produzione ha coinciso con un momento significativo della storia del Canada, ovvero il passaggio alla legalizzazione.
L’altra protagonista della serie è la cannabis
“Una notte ero in auto e non riuscivo a dormire […] Poi è partita una luce lampeggiante. […] Il mio cervello mi ha parlato: “Perché cazzo coltivo erba per fare soldi per comprare roba? Quando le persone che hanno ciò che vorrei, fumano erba? Quindi, ho eliminato l’intermediario e ho iniziato a fare le monete di hashish: è perfetto”. (Ricky, ep.1 St.8)
Ricky inventa i soldi di fumo, con tanto di delizioso timbro della fogliolina, e ci compra un ghiacciolo, il giornale, la benzina, le cose di tutti i giorni. È forse il momento più alto di questa confessione di amore continua dei personaggi, Ricky in particolare, verso la cannabis.
Grande protagonista nella vita dei Boys, l’adorata pianta appare in tutte le sue forme: sotto attacco dei parassiti in piena fioritura, sotto forma di cime nascoste tra le intercapedini di un camper (per farne la pensione di vecchiaia). E ancora, in forma di olio miele prodotto da una raffineria domestica, o su un trenino elettrico nel tentativo di esportarla negli States.
Non è un rapporto equilibrato, perché appare nei posti più inappropriati, nei momenti meno opportuni. L’indole antiproibizionista non è dettata da principi troppo articolati, ma da una sincera esigenza di consumo e profitto. Negli anni non mancano i riferimenti e le punzecchiature al sistema, anzi, tutto il racconto di fatto ricalca le diverse stagioni politiche in materia.
Dal 2001, anno della legalizzazione per uso medico in Canada, quando la serie viene lanciata, all’inasprimento delle pene per i coltivatori del 2006, fino al 2014, quando viene rivista la legge per l’uso medico e ci si avvia verso una stagione nuova. È nel 2014 che TPB entra a gamba tesa nel dibattito canadese con il film “Don’t Legalize it”.
La tesi dei ragazzi è semplice: se legalizzate la marijuana ci rovinate il business e l’indotto (come il traffico di “urine pulite per test anti droga” di Julian e Bubbles). I prezzi, la competizione del mercato, le tasse: “Non voglio caricare le tasse sulla droga che ho coltivato!”, dice Ricky nel film, dopo aver fatto irruzione in un’audizione parlamentare (in cui compare in un cameo anche l’attivista antiproibizionista Jody Emery) e aver distribuito la sua erba sui banchi dei deputati. Un argomento inattaccabile che gli procurerà, infine, una licenza per coltivare marijuana medica.
L’irruzione di Ricky nel film “Don’t Legalize it”
Nella realtà invece, dal 2018, anno in cui in Canada è stato legalizzato il commercio di cannabis, il trio è davvero entrato sul mercato con il marchio TPB.
C’è chi ha identificato la narrativa di basso livello dello spettacolo come “una telenovela anti-borghese, una celebrazione allegra e amorevole di teppisti pigri e sboccati”. Chi invece, nella natura anti-sociale e violenta dei TPB, ha visto una reazione tipicamente canadese all’egemonia culturale degli USA.
Fatto sta che in Canada è un cult e che anche la ricerca accademica si è occupata di TPB. Infatti è stato condotto uno studio sugli stereotipi di genere che veicola – non ne esce bene, per niente – e uno sugli stereotipi legati alle classi sociali marginalizzate, usati invece come leva di riscatto. C’è addirittura uno studio sulle pratiche economiche alternative e informali su cui si regge il Trailer Park.
È un racconto destinato ad essere ripetitivo, come nella tradizione narrativa dei perdenti irrimediabili. Difatto, la rassicurante circolarità degli eventi permette di guardare episodi sparsi di TPB, uno ogni tanto, senza mai sentirsi disorientati.
Ma non è ancora stata detta la parola fine: è in arrivo infatti una nuova stagione dall’eloquente titolo “Trailer Park boys Jail”. Chissà. C’è sempre un momento in cui viene voglia di buttarsi sul divano e fare un giro al Trailer Park per vedere che succede da quelle parti, anche se lo sai già.
Articolo originale su BeLeaf Magazine