Intervista a Francesco Amorosi, Principal Consultant e partner PQE Group
Nasce BeLeaf Talks, uno spazio di discussione, dove dialogheremo con esperti, addetti ai lavori, esperti, legislatori e realtà del nostro settore, per provare ad andare un po’ più a fondo sui temi che riguardano il mondo della cannabis. Cominciamo questi nostri incontri con Francesco Amorosi, Principal Consultant e dal 2004 partner di PQE Group, azienda italiana leader nel settore qualità a livello globale. Amorosi sta seguendo in tutto il mondo – in particolare in Sudamerica – diversi progetti a supporto della creazione di impianti per la produzione di cannabis terapeutica.
Con lui abbiamo deciso di parlare del tema cruciale relativo all’individuazione di standard di qualità per la cannabis, in particolare a livello medico.
Amorosi, al pari di qualsiasi medicinale di derivazione botanica, anche la cannabis a scopo terapeutico dovrebbe rispettare precisi standard di qualità. Quali sono, come sono articolati e quali fasi della produzione riguardano questi requisiti?
Quando si parla della cannabis in termini di principi attivi a base di cannabinoidi o prodotti farmaceutici, l’ambito è regolato come un prodotto farmaceutico qualsiasi. Quindi abbiamo un processo legislativo, autorizzativo e produttivo esattamente identico ad un prodotto farmaceutico. I problemi sorgono quando parliamo di cannabis light o cannabis medica. Questo è un mondo molto meno regolato e a livello di garanzie farmaceutiche presenta diverse zone grigie che ancora non sono state regolate in maniera uniforme.
Il consumo di cannabis oggi è molto incoraggiato a livello medico. Il rischio però è proprio quello di esporre i pazienti all’uso di prodotti che non abbiano una minima garanzia di qualità. Come si dovrebbe ovviare a questo vulnus?
Bisognerebbe proprio andare a regolare questi due ambiti, quello della cannabis light e quello della cannabis medica. Da questo punto di vista in Italia assistiamo proprio al paradosso per cui per commercializzare la cannabis light ci si è dovuti infilare in un cavillo della legge 242. Quello è chiaramente un classico buco lasciato dal legislatore. L’Italia non ha un’agenzia specifica regolatrice, a differenza di altri Paesi, e questo si sta rivelando un problema.
Il mercato della cannabis in Europa, nel giro di dieci anni, arriverà a valere 60 miliardi di euro. La definizione di standard di qualità armonizzati ai quali le aziende dovranno sottoporsi è assolutamente urgente. A che punto siamo da questo punto di vista in Europa, anche in rapporto a quanto avviene in altri Paesi?
Siamo nettamente indietro rispetto a Paesi come il Canada, negli Stati Uniti il framework regolatorio non è ancora così chiaro. In Europa ci sono Paesi che hanno cominciato a creare un’agenzia dedicata alla cannabis medica, tra questi il Belgio, la Germania, il Lussemburgo, l’Olanda, il Portogallo. Però a livello globale siamo lontani da un’armonizzazione. Per cui chi si muove in questo business deve avere a che fare con due meandri, quello delle dogane e quello regolatorio e autorizzativo.
Parlando dell’Italia, come noto, la produzione di cannabis a scopo terapeutico, relegata all’istituto chimico farmaceutico di Firenze, non è assolutamente sufficiente a garantire la richiesta. Una chiave potrebbe essere l’apertura della produzione anche ad enti locali e aziende private. Ma la politica da questo punto di vista si sta muovendo molto lentamente. L’Italia rischia di perdere un treno che potrebbe non passare più?
Assolutamente sì. Oltre che in Sudamerica, lavoriamo tanto in Paesi come il Portogallo o la Svizzera, che tra vuoti normativi e aspetti regolati hanno comunque trovato un modo per agevolare l’industria nazionale. Da noi si tratta sostanzialmente di una scommessa, sperando che da un momento all’altro si possa sbloccare l’aspetto regolatorio, cosa che ad ora non è ancora accaduta. Quindi sì, l’Italia è molto indietro da questo punto di vista. Inoltre c’è anche una confusione relativa all’Aifa: non esiste un’agenzia dedicata alla cannabis e questo porta alla creazione di prodotti che non sono farmaceutici e che non si capisce neppure come possano essere venduti.
La confusione è tanta, insomma.
Sì, e non se ne capisce il motivo perché di fatto le categorie sono anche abbastanza semplici. C’è il cosmetico, l’alimentare, la light, la cannabis medica che non è esattamente un prodotto farmaceutico e poi abbiamo i principi attivi e i prodotti prettamente farmaceutici. Non è un sistema complesso, basterebbe un po’ di volontà. E in questo si percepisce ancora un pregiudizio ideologico pesante.
Aricolo originale su BeLeaf Magazine